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giovedì 27 settembre 2012

Review - ICO



Sarebbe troppo facile ridurre il giocatore a se stesso, sarebbe fin troppo cattivo, nella mentalità contemporanea, lasciare che sia la mano che guida il pad ad arrangiarsi e a tentare di venire a capo, senza il minimo aiuto, di una intricata situazione virtuale. Sarebbe sadico non dargli neppure una trama, un motivo per cui si trova lì a rischiare la pelle (virtuale certo, ma pur sempre sua). Ma oggi ci si ostina a chiamarlo facile perché nessuno, ad eccezione di pochi, ha il coraggio di farlo e ancora di meno oggi ha la volontà di comprendere se è vero quanto risulta in apparenza, se davvero la trama non c’è, se è difficile da giocare, se è solo una reiterazione truccata di qualche vecchio gioco da sala mangiasoldi.


E invece ICO è esattamente tutto questo, dalla prima all’ultima parola, dal primo all’ultimo minuto di gioco. E’ un esperimento audace, stordente e chiarissimo come il sole, trasparente come il vetro e insieme riservato, intimo e minimalista come un’esplosione nucleare in bottiglia. E proprio come questa tiene nascosta la sua natura fino all’ultimo, dice poco e anche dopo quel poco o nulla che spiega sorgono solo altre domande piuttosto che risposte. Prende il mistero di se stesso come qualsiasi timido individuo e lo usa come mezzo e strumento della propria affermazione, come ago attraverso il quale guidare il proprio filo e cucirsi la fetta di destino che gli spetta.

Inizia tutto in medias res: un ragazzo di dodici anni è accompagnato da tre uomini a cavallo vestiti di nero verso una destinazione sconosciuta, attraverso una foresta di un verde spento eppure cristallino. Solo il fatto che abbia le mani legate lascia intendere la sua costrizione, e solo poche inquadrature fanno vedere che ha delle insolite corna naturalmente spuntatigli in testa. Viene trasportato in un grande castello, sospeso in mezzo ad una isoletta, e rinchiuso in una bara dai disegni vagamente tribali. Il linguaggio parlato è immaginario, ci sono i sottotitoli. I boia accennano al fatto che quelle loro azioni sono “per il bene del villaggio”. Lo lasciano lì, vivo ma prigioniero, ma in quel momento il filo della storia inizia a muoversi, qualcosa a cambiare. Una piccola scossa agita le pareti di pietra e il sarcofago perde stabilità, oscilla per poi aprirsi e lasciarlo cadere sul pavimento; il silenzio si ricompone, lui si rialza, osserva ciò che lo circonda, si muove, comincia a vagare. Capisce solo che deve cercare una via di fuga e nel suo peregrinare nella struttura secolare e immensamente, innaturalmente silenziosa vede un altro essere vivo, rinchiuso in una gabbia appesa al soffitto con una catena. E’ una ragazza dai capelli corti, pallida. Tenta di parlarle, di dirle qualcosa, ma lei non risponde. Non appena la libera, delle creature d’ombra senza occhi la agguantano e cercano di trascinarla via. Guidato dall’istinto, Ico prende un rudimentale bastone e cerca di allontanare le ombre.


E’ questa l’essenza, il compendio semplice ma perfetto di tutto; ICO non ha lunghe premesse, musiche possenti, eserciti che camminano; non ne ha e non ne ha bisogno, perché basta il semplice senso di responsabilità che trasmette, e questo davvero non ha pari da nessun’altra parte. Perché Yorda (così si chiama la giovane) è bella, trasmette una purezza trascendentale ma anche una terribile, spaventosa fragilità, tanto che da la sensazione di poter andare in pezzi se solo le ci si rivolge con voce più alta di un sussurro. Parla una lingua diversa dal protagonista, incomprensibile pure nei sottotitoli con cui comunica all’utente, fatti di astrusi glifi dal sapore precolombiano, eppure simili barriere non intaccano la sincera preoccupazione del protagonista e del giocatore, che vuole fuggire insieme a lei da questa grande cittadella-prigione, vuole salvarla dalle ombre che attentano alla sua incolumità. E per farlo, controllato da chi tiene il pad in mano, dovrà attraversare l’essenza stessa di quest’avventura, ovverosia intricati puzzle ambientali tesi a creare percorsi per attraversare burroni, ponti crollati, per far arrivare Yorda incolume dall’altra parte prendendola per mano, chiamandola, afferrandola quando salta per non farla cadere, per non farle patire l’ennesimo assalto delle creature d’ombra, per non appesantirci il cuore ogni volta che la lasciamo sola per paura che ce la portino via.


Per riuscire nella fuga Ico avrà a disposizione solo poche risorse, qualche arma improvvisata e rugginosa, la capacità di arrampicarsi e saltare, e infine Yorda stessa: la ragazza infatti possiede degli inspiegabili poteri magici, capaci di aprire porte, attivare macchinari e ricostruire miracolosamente ponti caduti. La natura di essi non è spiegata ma ripensandoci neppure serve, ne basta solo la presenza pragmatica, influente sul mondo che circonda i due protagonisti, legati dall’istinto, dalla volontà di sopravvivenza, simbolicamente rappresentata ogni volta che i due si prenderanno per mano per correre di nuovo verso l’ennesimo tentativo di fuga.


Il comparto tecnico non è valutabile secondo parametri di mera potenza di calcolo, di riproduzione. Non è valutabile in tal senso per il semplice fatto che quasi non c’è, l’unica cosa che prepotentemente si fa largo negli ambienti vuoti e silenziosi del castello è la semplice, totale e onnipresente artisticità del totale, della fattura di disegno del gioco stesso, trasudante influenze artistiche e culturali inaspettate, a partire dalla copertina che omaggia devotamente Giorgio De Chirico. Le strutture, nel loro grezzo disegno a cubetti di pietra, appaiono solide e delineatissime, ingiallite dal tempo; Ico si muove rigido ma naturale in questi androni che paiono infiniti, Yorda è tremante, magra, eterea come un fantasma, così autenticamente umana quando tenta di suggerire, con gesti e piccole parole, qualche indizio per far proseguire il giocatore, le ombre sono metalliche, fumose, incorporee ma così letali nella loro indeterminatezza. Il grigio e il giallo del castello si alternano all’azzurro chiaro del cielo, al verde della poca vegetazione che cresce, il silenzio è semplicemente assordante, si spezza solo per qualche folata di vento e per il sommesso ciabattare dei sandali del protagonista che corre da una parte all’altra; le musiche sono rarissime, attivate solo per certi avvenimenti come delle scintille, ma così belle che ogni volta è come assistere ad un piccolo miracolo. Non farete neppure caso alla longevità (conoscendolo a memoria non dura neppure sei ore), quella sensibilità che avete dentro vi farà temere di arrivare alla fine, di non poter più seguire l’ago del destino di queste due anime tormentate.


Di nuovo, Fumito Ueda ci era già arrivato dieci anni fa, c’era già riuscito prima di tutti. Ico è un viaggio, una fiaba, una storia, una ballata che coinvolge a pelle, una dimostrazione che alle volte basta esserci per fare qualcosa di buono, di concreto. E’ quel qualcosa che ti fa smuovere la bontà nel cuore, che fa sentire dopo che si è spenta la console di essere stati testimoni di qualcosa di grande nel suo piccolo. Che non manca di far chiedere come può essere veramente, razionalmente possibile che un gioco possa far provare simili emozioni, simili consapevolezze, apposta perché pensate e pensiamo che alla fine “sono solo giochi”. ICO è la dimostrazione che dovremmo smetterla di considerarli solo come tali.

 Voto: 97/100



Cavaliere Bardo 27/9/2764


Scheda Tecnica

Casa SCEE | Sviluppatore: SCEJ | Distributore Halifax | Formati Disponibili PlayStation 2, PlayStation 3 (parte di una collection) | Formato Esaminato PlayStation 3 | Prezzo 29,90 | Specifiche tecniche 1 Giocatore, 5578 KB HD, Controller analogico con levette, Compatibile vibrazione, compatibile 3D (solo PS3) | Lingua Italiano, Tedesco, Francese, Inglese, Spagnolo (testo a schermo e sottotitoli) | Multigiocatore Non presente | Età consigliata 12+ |


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